L'India, la I dei favolosi BRICS, i paesi che sembrano trascinare lo sviluppo, così affascinante con la sua cultura differente eppure vicina alla nostra, grande come un continente, l'India è anche un luogo dove fare business?
Lo chiediamo a Stefano Martello e Sergio Zicari autori del volume Fare business in India pubblicato da Franco Angeli
D1: Un aspetto che mi ha molto incuriosito rispetto al
titolo del libro è il vostro pedigree professionale: voi provenite
professionalmente dalla Comunicazione e dal Marketing. Perché avete scelto
questo argomento, quasi esclusivamente economico, e in che modo l’argomento si
“accosta” alle vostre competenze?
Stefano: ritengo che oggi la
stessa scienza economica sia rappresentata da un campo di conoscenze e di
apporti quanto mai vasto. Nel momento stesso in cui abbiamo deciso di
approfondire questo tema, ci siamo trovati di fronte ad un approfondimento che,
al contrario, era esclusivamente rivolto al dato finanziario. Se questo ci ha
aiutato nel calibrare i temi del libro, dall’altra parte ci è sembrato un
errore di valutazione non includere – soprattutto rispetto all’India che
presenta un carattere di diversità rilevante – parametri di valutazione
differenti (per approccio e per attuazione) e nel contempo utili e funzionali
all’instaurarsi di una relazione sincera e il più possibile bidirezionale.
Conoscere le modalità di comunicazione o gli stili di business adottati aiuta
molto e credo che la comunicazione, nel tempo, si accosterà sempre più alle
tematiche economiche e finanziarie, divenendone parte importante.
Sergio: quando si parla di
economia, a livello aziendale come a quello politico, un grave errore che
spesso si commette è quello di limitarsi al campo dei conti e delle
statistiche. L’economia reale, quella vera, è inscindibile – come qualsiasi
altra attività umana – dalle persone. Ignorare l’elemento “comunicazione”
(comprendersi l’un l’altro) e quello “marketing” (comunicare per convincere)
spesso fa fallire piani economici sapientemente ma teoricamente studiati sulla
carta. Se poi questi piani fanno riferimento a un Paese come l’India, assai
diverso culturalmente e socialmente dal nostro, la ragione di realizzare questo
libro diventa ancor più evidente.
D2: Perché l’India? Quali vantaggi offre?
Stefano: un ingegnere, poco
prima della mia partenza per Bangalore, mi ha raccontato la sua esperienza in
quella città. Era andato lì per tenere dei corsi all’Università di Bangalore.
Sono affamati di conoscenza, mi ha detto, non si stancano mai di approfondire e
studiare e fare domande e riflettere sulle risposte ottenute. Trovando anche
dei margini di miglioramento. Ci sono dei vantaggi economici e finanziari (su
tutti, il costo ancora contenuto della mano d’opera così come l’ottima
preparazione in alcuni campi scientifici) ma credo che la curiosità
intellettuale rappresenti un pregio trasversale e un grande stimolo per i
nostri imprenditori. Senza contare che, proprio tale dato – unitamente
all’attenzione della società indiana ad un clima di formazione perenne – ha
innescato negli anni la crescita esponenziale di una classe media sempre più
preparata e sempre più pronta a rispondere alle istanze del Mercato.
Sergio: un mercato di oltre
un miliardo di consumatori, ancora lontano dalla saturazione di prodotti di
largo consumo, con larghe fasce di popolazione che potranno accedere in un
prossimo futuro a più alti livelli
economici e con una crescente domanda di prodotti di qualità e di design
(tipici del made in Italy) sono tutte valide ragioni per cercare di entrare in
quel mercato. Ma aggiungerei un altro punto che sfugge ai più. Duemila anni fa,
uno dei libri della Bibbia, affermava che «Nessuno mette vin nuovo in otri
vecchi; altrimenti il vin nuovo rompe gli otri, il vino si spande e gli otri
vanno perduti». Se vogliamo il “vin nuovo” dei mercati internazionali, non
possiamo metterlo negli “otri vecchi” delle nostre consolidate abitudini e modi
di lavorare. Dobbiamo metterlo negli “otri nuovi” di una mentalità più aperta,
di un modo di agire più consono ai nostri tempi. Perché l’India? Perché ci
costringerà a uscire dai nostri vecchi schemi e ci renderà più pronti alle
sfide sia dell’attuale crisi economica che del nuovo mondo che ci attende dopo
di essa.
D3: Il sottotitolo del vostro testo è chiaro: vi rivolgete
alle PMI. Perché avete scelto questo tipo di target e, soprattutto, non vi pare
– date le stesse dimensioni delle organizzazioni che volete intercettare –
azzardato calibrare l’intero testo su queste realtà?
Sergio: le grandi imprese
non hanno bisogno del nostro libro. Sono abbastanza strutturate, hanno
sufficienti mezzi economici e risorse umane per affrontare in piena autonomia
il percorso di esplorazione di un Paese come l’India. Anzi, se non sono ancora
giunte in India, hanno comunque già maturato sufficiente esperienza in altre
nazioni per sapere come affrontare anche questo Paese. Il discorso è molto
diverso per le PMI. La globalizzazione non coinvolge solo le grandi aziende.
C’è spazio di manovra (ampio spazio) per le nostre PMI dotate di voglia di
fare, di iniziativa e di grande flessibilità. Non hanno però abbastanza denaro,
tempo e risorse umane per una ricerca da zero su dove e come
internazionalizzarsi. Ecco che il nostro volume fornisce loro una guida di base
per capire come muovere i primi passi, cosa aspettarsi da un nuovo mercato e
cosa fare per conquistarlo. Direi di più. “Fare business in India” non è
scritto solo per le PMI che hanno già deciso di aprirsi al mercato indiano. È
sì fatto per loro ma anche per quelle imprese che vogliono semplicemente capire
a che punto sono rispetto al mercato che le attornia. Ecco perché abbiamo dedicato
un intero capitolo alla pianificazione. È un capitolo fondamentale perché aiuta
l’imprenditore a capire quali sono
le eventuali azioni correttive che deve apportare alla sua azienda prima di
andare all’estero. Un lavoro che, se applicato, gli farà conquistare meglio
anche il mercato domestico.
D4: Come fa una PMI ad approcciare un Paese così lontano?
Che consigli offrite?
Stefano: come abbiamo
scritto nel libro, è fondamentale una fase di pianificazione che sia
consapevole ed attenta ad ogni aspetto. Ciascuno di noi può avere una buona
idea, ma l’importante è che quell’idea venga misurata e valutata nella realtà,
con i suoi limiti e con le sue opportunità. L’idea deve diventare un progetto
(con relativi limiti temporali ed operativi); il progetto deve essere valutato
all’interno dell’organizzazione (per verificarne la compatibilità e
sostenibilità rispetto al numero di dipendenti; alle commesse già in corso;
alla disponibilità o meno di risorse finanziarie e, ancora, alla presenza di
particolari profili professionali) ed offrire delle risposte il più possibile
dettagliate, che orienteranno poi la vera e propria fase di organizzazione. Si
tratta di un processo circolare che, troppo spesso, viene disatteso a vantaggio
di una attività più casuale, sospinta da un entusiasmo troppo friabile. Proprio
per questo abbiamo dedicato a tale fase un intero capitolo (integrandolo anche
con una sitografia attraverso la quale farsi una prima idea e l’elenco di
organizzazioni di consulenza da consultare nel prosieguo dell’iniziativa), non
per offrire una soluzione certa, quanto per offrire uno strumento concreto di
prevenzione rispetto alle possibili distorsioni che potrebbero vanificare gli
sforzi compiuti.
D5: Quali sono le principali peculiarità che contraddistinguono
il sistema di business indiano. E come si riflettono nelle interazioni con gli
interlocutori italiani?
Stefano: un primo aspetto
importante riguarda una trasversalità valoriale che permea sia la sfera sociale
che quella professionale dando luogo ad un macro valore che nel libro ho
identificato con il termine di collettivismo,
emotivo e umano prima che professionale. Sono molto rigorosi e analitici, e
questo spesso spiazza l’interlocutore italiano, soprattutto se si tratta di un
primo incontro. Un manager mi ha raccontato la sua sorpresa quando – giunto
dall’Italia per conoscere il proprio potenziale interlocutore in un incontro
che credeva interlocutorio – si è trovato in una riunione dai toni
immediatamente operativi, con un business plan già redatto nei suoi elementi
essenziali.
Hanno, qualunque sia l’ambito di
business, una struttura gerarchica molto formale e anche questo dato, da solo,
spiazza molto l’interlocutore italiano più abituato a decentrare/ritardare/sospendere
mansioni e decisioni, oltre ad influenzare anche la quotidianità rispetto, per
esempio, a processi decisionali che esigono una risposta immediata (e, per
questo, necessariamente decentrata). A livello operativo, è evidente come
questa rigidità implichi la necessità di avere un referente indiano che sia in
grado di prendere tutte le decisioni necessarie bypassando nel contempo il
rischio di un possibile ritardo rispetto a tutte le micro decisioni che
intervengono nel corso di un processo complesso.
Abbiamo approfondito questi temi sia
nel secondo capitolo del libro che – sia pure indirettamente – nelle
conversazioni che abbiamo avuto con professionisti italiani che operano da anni
in India.
D6: Uno degli strumenti che offrite al lettore è quello
della negoziazione.
Stefano: nel momento stesso
in cui abbiamo delineato i valori identitari indiani, ci siamo resi conto di
dover offrire al lettore anche uno strumento di avvicinamento tra le singole
diversità. Ora, noi siamo abituati ad una negoziazione generalmente giocata
sull’emersione di punti di forza e punti di debolezza in capo alle parti, ma
questo modello ha mostrato tutta la propria vulnerabilità soprattutto nel medio
lungo termine. Si tratta, dunque, di dare allo strumento una connotazione più
positiva e propositiva, sottraendolo alla logica del più forte e restituendolo
ad una dinamica di confronto funzionale all’emersione di un risultato che non
sia già stato pianificato all’inizio ma che sia il risultato dell’avvicinamento
delle istanze di parte. In questo modello, chiaramente, la comunicazione gioca
un ruolo di primo piano nel creare una relazione che sia duratura e non pronta
all’implosione di fronte alla prima difficoltà.
D7: A proposito di valori identitari, allora, quali sono i
valori identitari del vostro libro?
Stefano: molti ci hanno
domandato se, seguendo pedissequamente le pagine di questo libro, sia possibile
assicurare il successo del processo. Assolutamente no. Perché si tratta di un
processo con molte variabili. Il nostro intento è sempre stato quello di
offrire ai nostri connazionali un vero e proprio facilitatore, che si
concentrasse sugli spazi meno presidiati e per questo più vulnerabili. Non per
eliminare le criticità quanto per conoscerle e riconoscerle nel corso del
progetto. Per questo – anche fedeli ad una nostra idea di saggistica
professionale – abbiamo privilegiato un linguaggio molto intuitivo, ricorrendo
ad esempi e a testimonianze, con lo scopo di allontanare la trattazione da un
sistema di idee giuste perché utopiche,
avvicinandole il più possibile alla realtà. In questo senso, per esempio,
l’idea di un capitolo sugli adempimenti e le regole giuridiche per il personale
in India (curato da Wim Cocquyt e Lidia Rosa) che affronta una tematica
trasversale, a prescindere dall’ambito di business o, ancora, la presenza delle
schede pratiche posizionate alla fine del volume.
Il tutto per poter dire, con piena
consapevolezza, che i valori identitari di questo libro sono quelli della
condivisione, dell’incontro e della relazione.
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