Andare all’estero ci dicono: l’export è la nostra salvezza.
Vero. Lo dimostrano più che gli studi i risultati ottenuti da quelle PMI che
hanno diversificato i mercati geografici e che hanno avuto il coraggio di cercare
oltreconfine quelle soddisfazioni che l’Italia negava loro.
Lo abbiamo visto anche queste pagine virtuali intervistando
molti imprenditori che ci hanno raccontato la loro esperienza di successo(qui sotto
l’elenco con i link alle loro avventure), di un successo costruito con intelligenza e non senza fatica o errori, ma con la volontà sicura di riuscire e di studiare per farlo.
Ma bisogna
saperlo fare o farsi guidare da chi ha esperienza e metodo.
Le storie di
oggi sarebbero comiche non fossero tragiche.
Le ho raccolte da esperienze dirette o indirette, saperlo
non cambia nulla, e le racconto non per mettere alla berlina individui
sprovveduti, ma per mettervi in guardia e aiutarvi a capire che errori non
commettere, perché sono dolorosi e producono guai.
Il fattore che ha successo localmente con salumi e formaggi
e salse fatte in casa e promosse nei negozi e mercati locali che vuole
esportare negli States è ti chiede un aiuto per vendere a New York e
Washington. E ti chiedi: perché proprio NYC e DC? Sulla base di quale analisi?
Quella condotta nei serial TV? Salumi? E salse in vasetto? Non ti fanno neanche
salire a bordo se sanno che porti con te simili prodotti? E venderli poi dove?
Sulle bancarelle a Times Square? Come? Come ti promuovi? “In paese mi conoscono
tutti” è il tuo pay-off? Potrebbe anche funzionare, se a dirlo fosse Robert de
Niro vestito da fattore marchigiano magari. Dov’è la strategia? E che cosa
pensi di investire?
Il produttore di accessori per abbigliamento che manda
specifiche e fotografie, propone –anzi: impone- le sue condizioni, non risponde
alle prime mail che richiedono informazioni e dettagli e poi sparisce dalla
circolazione. Non una, ma due o tre volte, ogni volta contattando un
interlocutore diverso: Camera di Commercio, società di intermediazione, esperto
di export. Cos’è? Siamo su scherzi a parte? Giochiamo a nascondino?
Il negozio del centro, di lusso, che vende prodotti di
design e che per un anno flirta con te per capire, per imparare, per attingere
poi decide di muoversi da solo perché ci sono mondi che ti stanno aspettando e
non si può prima pensare: bisogna agire subito. “Poi ho amico che conosce uno
che ha sempre delle condizioni sicure e particolari e può ottenermi questo e
quello” e magari afferma di avere una cliente asiatica che promette l’apertura
di negozi monomarca e garantisce
un successo senza pari. E poi, dopo qualche mese, scopri che quella
fiera che doveva essere gratuita e garantire l’introduzione nel paese gli è
costata una barca di soldi e ci ha rimesso la merce che le autorità si sono
trattenute. E che la catena non era monomarca ma un trucco per spillarti
prodotti senza pagarteli. Valeva la pena? Siamo davvero così ingenui?
Il consulente fiscale che si improvvisa imprenditore perché
invece di aiutare a spegnersi una attività d’artigianato calzaturiero di
qualità ci vede un futuro radioso con scarpe vendute in tutto il mondo fatte a
mano, su misura, su disegno e commissione. Bell’idea, ma quando hai da
investire? Quanto puoi aspettare per farti conoscere? Viene fuori che l’idea è
di produrre milioni di utili investendo meno di 500.000 €, come a dire proventi
che neppure la mafia potrebbe garantire, e in tempi brevi che dopo quattro mesi
di investimento in azioni di promozione, quando stavano dando i frutti, come
sempre interviene qualcuno –diciamolo: della famiglia- a dire “io lo so fare
meglio, guarda che ti faccio vedere”. Risultato? In neanche sei mesi fallimento
totale dell’attività. Non solo questa, ma anche le altre.
Storie di ordinaria follia? Diciamo di passione. Però poi ti
chiedi perché all’estero di fidano poco di noi o perché non abbiamo il successo
che vogliamo.
Perché un conto è essere volitivi, altro velleitari e
presuntosi.
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