Pubblico un articolo di Dario di Vico apparso su CorSera e sul blog Tumblr dell'autore ieri martedì 16 aprile a proposito dell'importanza di lanciare le PMI all'estero
Pizzaioli/ Mancano gli italiani, abbondano gli egiziani e la pizza cerca di “far sistema”
La pizza deve fare «sistema». Può sembrare una battuta o addirittura un ossimoro e invece il tema è all’ordine del giorno. Nel punto più nero della Grande Crisi abbiamo scoperto che una delle attività tradizionali della cucina italiana, sempre snobbata perché considerata low cost, ora può venir buona per reggere l’urto della recessione. E addirittura per produrre qualche migliaio di nuovi posti di lavoro. Con questo spirito e quest’ottimismo ieri si è aperta a Parma la prima edizione del Pizza World Show, metà fiera metà evento, perché mette insieme gli stand delle aziende della filiera agroalimentare e organizza anche il campionato mondiale dei pizzaioli. Si può discutere se sia proprio Parma la capitale della pizza italiana ma la forza e l’organizzazione della food valley emiliana hanno avuto per ora il sopravvento. L’intenzione è, [CAP2]<CF8126>si parva licet</CF>[/CAP2], di far partire una politica industriale che rafforzi i nostri brand e vada alla conquista dei mercati che crescono più, come il Brasile. Già oggi, del resto, la città al mondo che vanta il maggior numero di pizzerie non è né Napoli né New York né Londra ma proprio San Paolo del Brasile.
<CS9.5>In termini di business il mercato della pizza vale in Italia un po’ più di 9 miliardi di euro suddivisi tra 25.000 locali con servizio al tavolo e altrettanti che si limitano alla vendita al taglio. I principali operatori del settore si chiamano Rossopomodoro (gruppo Sebeto) e Spizzico (gruppo Autogrill) ma se i nostri quarti di nobiltà pizzaiola sono storicamente confermati a farla da padroni nel mondo — almeno nelle quantità — sono due catene americane, Pizza Hut e Domino’s. Come è capitato in tanti altri settori (vedi mobili/Ikea) noi italiani abbiamo sottovalutato l’importanza della distribuzione, siamo invece fortissimi nella produzione degli ingredienti (olio, pomodoro, mozzarella, farina) e in quella industriale di forni, macchine impastatrici e banchi refrigerati. L’esposizione di Parma si rivolge proprio a queste piccole e medie imprese, invitandole a uscire allo scoperto, a darsi visibilità e a puntare orgogliosamente sui mercati esteri. Uno dei convegni in programma si chiama proprio: «Quo vadis, pizza? Il futuro della pizza che verrà». Vasto programma.
</CS>Il caso ha voluto che il Pizza World Show si aprisse a Parma nel giorno in cui in città si celebrano i cento anni dalla nascita di Pietro Barilla, l’imprenditore italiano il cui nome è associato alla pasta. E proprio all’abbinata pizza&pasta la casa editrice del Mulino aveva dedicato qualche anno fa un coltissimo volume della serie «L’identità italiana», scritto dall’antropologo Franco La Cecla. In realtà a mettere in discussione l’egemonia italiana sulla pizza non sono solo le grandi catene americane, c’è un’altra sfida che stavolta viene dal basso. Dal lavoro e dal Terzo Mondo. Nelle grandi città come Milano i pizzaioli sono ormai quasi tutti di nazionalità egiziana e si stanno sempre di più specializzando. La comunità egiziana meneghina è molto rivolta al business, in due settori-chiave: ristorazione ed edilizia. Secondo i dati in possesso della comunità si stima che su un universo di 70 mila egiziani residenti nel Milanese ci siano all’incirca 10 mila partite Iva e una buona fetta di queste siano pizzaioli, alle dipendenze di connazionali o di pizzerie italiane. Molti di loro apprendono il mestiere tramite l’affiancamento ma grazie ai corsi organizzati della Camera di commercio si stima che vengano regolarmente formati 100 nuovi pizzaioli egiziani l’anno.
Del resto, secondo i numeri forniti dal presidente della Fipe-Confcommercio, Enrico Stoppani, il mercato italiano sarebbe in grado di dar lavoro ad altri 6 mila pizzaioli ma fatica a trovarli già formati. E i giovani italiani snobbano questo lavoro perché lo considerano a basso valore aggiunto. A giudizio di Stoppani, però, il pizzaiolo ha il vantaggio di potersi trasformare facilmente in un imprenditore di se stesso e comunque il consumo di pizza è dato in aumento. L’8% dei consumatori la mangia al mattino al posto della brioche e dei biscotti e la pizza al taglio take away si è ormai imposta per la pausa pranzo di impiegati e studenti.
L’intraprendenza degli egiziani non si ferma alla manodopera, continuano a nascere pizzerie e ristoranti del Faraone. In alcuni ormai il menù delle pizze italiane da ordinare è vastissimo e comprende persino la famosissima focaccia di Recco, vanto dei fornai della riviera ligure. L’esplosione calcistica del giovane attaccante italo-egiziano Stephan El Shaarawi ha poi fatto sì che sia aumentato il numero dei clienti di fede milanista che va a mangiare regolarmente la pizza dagli egiziani. «È vero — ammette David Mandolin, responsabile della Scuola italiana pizzaioli — gli egiziani stanno soppiantando noi italiani, per far una buona pizza bisogna garantire un prodotto croccante e digeribile. Non tutti ci riescono, loro sì». Per tutti questi motivi ha destato curiosità l’annuncio dato qualche settimana fa da Rossopomodoro della prossima apertura di una pizzeria al Cairo, come se i napoletani volessero portare con un contropiede la sfida in casa dei nuovi concorrenti. Mandolin riconosce che la società campana si sta muovendo bene perché si è data un marchio molto riconoscibile e ha saputo innovare. Due cose che un made in Italy «democratico» e non-solo-lusso deve applicare alla perfezione. Se vuol farcela.
[TWITTER]@dariodivico
<CS9.5>In termini di business il mercato della pizza vale in Italia un po’ più di 9 miliardi di euro suddivisi tra 25.000 locali con servizio al tavolo e altrettanti che si limitano alla vendita al taglio. I principali operatori del settore si chiamano Rossopomodoro (gruppo Sebeto) e Spizzico (gruppo Autogrill) ma se i nostri quarti di nobiltà pizzaiola sono storicamente confermati a farla da padroni nel mondo — almeno nelle quantità — sono due catene americane, Pizza Hut e Domino’s. Come è capitato in tanti altri settori (vedi mobili/Ikea) noi italiani abbiamo sottovalutato l’importanza della distribuzione, siamo invece fortissimi nella produzione degli ingredienti (olio, pomodoro, mozzarella, farina) e in quella industriale di forni, macchine impastatrici e banchi refrigerati. L’esposizione di Parma si rivolge proprio a queste piccole e medie imprese, invitandole a uscire allo scoperto, a darsi visibilità e a puntare orgogliosamente sui mercati esteri. Uno dei convegni in programma si chiama proprio: «Quo vadis, pizza? Il futuro della pizza che verrà». Vasto programma.
</CS>Il caso ha voluto che il Pizza World Show si aprisse a Parma nel giorno in cui in città si celebrano i cento anni dalla nascita di Pietro Barilla, l’imprenditore italiano il cui nome è associato alla pasta. E proprio all’abbinata pizza&pasta la casa editrice del Mulino aveva dedicato qualche anno fa un coltissimo volume della serie «L’identità italiana», scritto dall’antropologo Franco La Cecla. In realtà a mettere in discussione l’egemonia italiana sulla pizza non sono solo le grandi catene americane, c’è un’altra sfida che stavolta viene dal basso. Dal lavoro e dal Terzo Mondo. Nelle grandi città come Milano i pizzaioli sono ormai quasi tutti di nazionalità egiziana e si stanno sempre di più specializzando. La comunità egiziana meneghina è molto rivolta al business, in due settori-chiave: ristorazione ed edilizia. Secondo i dati in possesso della comunità si stima che su un universo di 70 mila egiziani residenti nel Milanese ci siano all’incirca 10 mila partite Iva e una buona fetta di queste siano pizzaioli, alle dipendenze di connazionali o di pizzerie italiane. Molti di loro apprendono il mestiere tramite l’affiancamento ma grazie ai corsi organizzati della Camera di commercio si stima che vengano regolarmente formati 100 nuovi pizzaioli egiziani l’anno.
Del resto, secondo i numeri forniti dal presidente della Fipe-Confcommercio, Enrico Stoppani, il mercato italiano sarebbe in grado di dar lavoro ad altri 6 mila pizzaioli ma fatica a trovarli già formati. E i giovani italiani snobbano questo lavoro perché lo considerano a basso valore aggiunto. A giudizio di Stoppani, però, il pizzaiolo ha il vantaggio di potersi trasformare facilmente in un imprenditore di se stesso e comunque il consumo di pizza è dato in aumento. L’8% dei consumatori la mangia al mattino al posto della brioche e dei biscotti e la pizza al taglio take away si è ormai imposta per la pausa pranzo di impiegati e studenti.
L’intraprendenza degli egiziani non si ferma alla manodopera, continuano a nascere pizzerie e ristoranti del Faraone. In alcuni ormai il menù delle pizze italiane da ordinare è vastissimo e comprende persino la famosissima focaccia di Recco, vanto dei fornai della riviera ligure. L’esplosione calcistica del giovane attaccante italo-egiziano Stephan El Shaarawi ha poi fatto sì che sia aumentato il numero dei clienti di fede milanista che va a mangiare regolarmente la pizza dagli egiziani. «È vero — ammette David Mandolin, responsabile della Scuola italiana pizzaioli — gli egiziani stanno soppiantando noi italiani, per far una buona pizza bisogna garantire un prodotto croccante e digeribile. Non tutti ci riescono, loro sì». Per tutti questi motivi ha destato curiosità l’annuncio dato qualche settimana fa da Rossopomodoro della prossima apertura di una pizzeria al Cairo, come se i napoletani volessero portare con un contropiede la sfida in casa dei nuovi concorrenti. Mandolin riconosce che la società campana si sta muovendo bene perché si è data un marchio molto riconoscibile e ha saputo innovare. Due cose che un made in Italy «democratico» e non-solo-lusso deve applicare alla perfezione. Se vuol farcela.
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